Così si esprime Giobbe riguardo alla presunta rilevanza del peccato:
Contempla il cielo e osserva,
considera le nubi: sono più alte di te.
Se pecchi, che gli fai?
Se moltiplichi i tuoi delitti, che danno gli arrechi?
Se tu sei giusto, che cosa gli dai
o che cosa riceve dalla tua mano?
Su un uomo come te ricade la tua malizia,
su un figlio d’uomo la tua giustizia!Giobbe 35,5-8
E molto più perché ho offeso te …
Non credo esista un brano biblico più eloquente di questo: Dio non viene neppure sfiorato dal nostro peccato! Per questo dire che “Dio è offeso dal nostro peccato” è, secondo me, un’affermazione quantomeno imprecisa. Per questo dire, nell’Atto di dolore, «e molto più perché ho offeso te … », non è forse corretto.
Direi, piuttosto, che la più grande offesa a Dio consiste nel maltrattare noi stessi, facendo il male o facendosi del male. E ciascuno di noi in coscienza ben sa che cosa sia il male che saremmo capaci di fare e che, a volte, purtroppo facciamo.
Tra l’altro, nella Bibbia ebraica, il verbo חֶטְא (chatah) riguarda sempre il venir meno ad un impegno preso, sia con Dio che con noi stessi, che con gli altri. Un impegno che, se trasgredito, ha delle conseguenze che sono tutte umane.
Di chi la colpa per aver peccato?
Ben sappiamo che (quasi mai) possiamo incolpare qualcuno se la nostra vita non sta prendendo la piega che desideriamo; se quel progetto che ci sta tanto a cuore non si realizza; se, insomma, tutto va male.
Se accogliamo ciò che la vita ci offre ogni giorno, la realizzazione dei nostri più bei sogni non è una cosa impossibile.
Solo però che non dovremmo mai dimenticare – e questo è un altro grande insegnamento di questo brano del libro di Giobbe – che molto, anzi moltissimo, dipende anche dall’impegno costante che ogni giorno mettiamo in tutto ciò che facciamo! Questo, in fondo, è il senso della parabola dei talenti (Mt 25,14-28)
Parte di un disegno globale che il peccato non scalfisce
Le parole della citazione biblica iniziale furono rivolte a Giobbe da un giovane di nome Elihu, il quale – a differenza degli altri due “amici” di Giobbe – riesce a capire quale sia il disagio profondo in cui Giobbe si trova.
Giobbe viene invitato a guardare in alto e non in basso, verso le sue purulente piaghe corporee… perché solo guardando in alto siamo capaci di non fare attenzione al nostro quanto mai grave peccato, ma alle cose grandi e belle che Dio vuole da noi.
Ma l’apice del libro di Giobbe è nel capitolo 42. Qui, Giobbe, pur restando ricoperto di piaghe, tuttavia riconosce di avere finalmente conosciuto Dio non per sentito dire, ma in prima persona. Attraverso cosa?
Attraverso la scoperta di essere parte, anche senza capirlo, della creazione, del progetto d’amore di Dio che è finalizzato sempre e comunque al miglioramento di noi stessi, all’approfondimento della nostra spiritualità e, perciò ad una vita più degna di essere vissuta.
Il peccato può essere anche grave, se nuoce a se stessi o al prossimo, ma di certo non obbliga Dio a cambiare il suo atteggiamento di amore verso l’uomo.