L’autore della Genesi concentra nei capitoli decimo e undicesimo la sua riflessione sulla dispersione dei popoli e delle loro relative lingue. Quest’ultimo aspetto è trattato nel capitolo undecimo (vv 1-9):
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro:
«Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco».
Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero:
«Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra».
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse:
«Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
Vi fu dunque un periodo tutti gli uomini della terra avevano “una unica lingua (שָׂפָ֣ה אֶחָ֑ת safah ‘echat) e uniche parole (וּדְבָרִ֖ים אֲחָדִֽים udevarim ‘acharim)” (v.1).
Va anzitutto notato che l’uniformazione assoluta della popolazione terrestre è un progetto alla portata dell’uomo, tant’è vero che esso fu realizzato e mancava solo una sola città e un’unica torre dove stabilirsi per dare un aspetto visibile e riconoscibile a tale progetto.
Basta leggere il testo per rendersi conto che il pensiero unico – come lo chiameremmo oggi – non è certo un progetto divino, perché Dio stesso discese dal cielo a bloccare la costruzione della città e a disperdere tutte le genti secondo le loro lingue.
Se dunque la diversità delle lingue è parte di un progetto cosmico, divino, allora diventa necessaria l’interpretazione per comunicare tra gli uomini. Nessuno può pretendere di conoscere la lingua ebraica senza l’aiuto di un interprete che l’abbia studiata e che la traduce in un’altra lingua.
La necessità delle traduzioni
Nessuno, poi, può pretendere di fornire la migliore traduzione al mondo di quello che una persona dice in ebraico o in qualsiasi altra lingua del mondo. Una traduzione talmente perfetta che sia fedele al 100% all’originale. Questo comporta due cose:
- che resta e resterà sempre un grado più o meno alto di incomunicabilità fra le persone;
- che resta e resterà sempre qualcos’altro da conoscere, un margine di mistero nell’altra persona che mai potremo scoprire.
Ma qual è la più grande conferma della bontà della dispersione delle lingue e della negatività di costruire istituzioni nazionali e internazionali?
Il fatto che il YHWH stesso (v. 6) non parli come essere al singolare, bensì come essere al plurale, per la seconda volta in questi capitoli (cfr. Genesi 1,26-27):
«Scendiamo (נֵֽרְדָ֔ה nerdah) dunque e confondiamo (וְנָבְלָ֥ה wenavelah) la loro lingua». (v. 7)
La pluralità della natura divina
Di nuovo si pone la solita questione: YHWH (o altrove ‘elohim) è un unico essere, oppure una pluralità? Secondo me, in tale contesto, questa domanda non ha nulla a che vedere con il brano presente. Infatti, la pluralità della natura divina giustifica la pluralità delle lingue e delle diverse realtà umane.
Ogni lingua rappresenta così la possibilità di capire un po’ meglio non solo gli altri, ma anche le sfaccettature stesse di YHWH, di Dio. Inoltre, siccome anche la Bibbia è stata scritta in una lingua diversa dalla nostra, nessuno mai potrà pretendere di riprodurre con fedeltà assoluta il tenore delle parole divine.
Il fondamentalismo di ogni epoca è perciò alieno dal pensiero biblico, fin dall’inizio. D’altra parte, anche il nichilismo – di cui il pensiero unico si nutre – è un’aberrazione assoluta di ogni spiritualità che rimanda sempre a una presenza, al di là e dentro l’assenza.