(clicca qui per i precedenti articoli) La fonte P. A partire della sua denominazione, questa “fonte” presenta già notevoli difficoltà. Dapprima fu chiamata elohista (dal medico francese Jean Astruc), poi codice sacerdotale (da cui deriva la sigla “P”) e infine tradizione sacerdotale.
Classicamente si ritiene che P abbia rappresentato l’ultima fase redazionale del Pentateuco, fornendone la trama generale. Tuttavia, più delle altre fonti, P conteneva indubbiamente anche leggi e racconti.
Si pensi, per esempio, alla storia del diluvio. Il lavoro redazionale di P parte dalla Genesi, dove la fonte è tradizionalmente riconoscibile nelle cosiddette formule di toledoth che strutturano il primo libro della Bibbia in dieci parti.
Il suo linguaggio è assai fisso e stereotipato, pieno di numeri e genealogie anche se è capace di astrazione (cfr. il primo racconto della creazione in Gen 1,1-2,4a). Tipico è l’interesse per il culto e i suoi riti.
Se è vero che P costituisce l’impalcatura del Pentateuco ciò però non significa che P non abbia una storia letteraria alle spalle. L’opinione prevalente era di distinguere tre fasi:
- uno scritto di base, che la fonte usò
- la raccolta di leggi denominata “codice di santità” (Lv 17-26) che risalirebbe ai tempi di Ezechiele
- altre aggiunte supplementari
Questa successione cronologica di P entrò via via in crisi, fino a ritenere P di origine esclusivamente post-esilica. Sorgeva però il problema di come P avesse potuto attingere ai racconti più antichi, ossia al cosiddetto materiale tradizionale.
Alcuni pensavano allora che P avesse attinto al racconto derivato dall’unione di J ed E all’epoca di Ezechia (il cosiddetto RJE). Altri pensano invece che P abbia raccolto racconti fino ad allora inediti.
Del resto alcuni elementi di P sembrano presupporre il periodo monarchico, come per esempio le menzioni della “tenda del convegno” (Es 25-31; 35-40) che non possono essere considerate solo delle retro-proiezioni del servizio cultuale del Tempio, quando questo non esisteva più, poiché distrutto.
Così dicasi per le menzioni degli oggetti divinatori, come gli Urim e Tummim, che ovviamente non esistevano più nel periodo del Secondo Tempio, quando al centro fu posta esclusivamente la Torah.
J (Jahvista) +E (Elohista) +D (Deuteronomio) +P (Sacerdotale): questa era allora la successione cronologica classica delle fonti che costituiva l’ipotesi documentaria classica attorno alla quale confluiva il consenso degli studiosi, fino alla prima metà del XX secolo.
Ma le cose cambiarono drasticamente dopo la seconda guerra mondiale. L’elohista iniziò a scomparire e l’interesse principale degli studiosi si concentrò su J e su P. Uno dei problemi di fondo era (ed è) quello della compatibilità del concetto di “fonte” con quello di “tradizione” (Gerhard von Rad e Martin Noth).
Se una tradizione percorre trasversalmente l’intero Pentateuco, con una sua origine, uno suo sviluppo e una sua piena maturità letteraria, che senso ha parlare di fonti, ossia di materiale cristallizzato usato dagli autori del Pentateuco?
Ma sarò soprattutto a partire dagli anni Settanta che gli studiosi metteranno definitivamente in crisi l’ipotesi documentaria. Ad oggi vi sono ormai dei chiari punti di non ritorno.